Nel primo capitolo del suo nuovo libro
"Il mondo salverà la bellezza?" pubblicato da Ponte alle Grazie e
dedicato all'urgenza di un ripensamento del nostro rapporto con le risorse
limitate del pianeta, Salvatore Settis cita Isaia (5,8,9):
«Guai a voi che ammucchiate casa su casa e congiungete campo a
campo finché non rimanga spazio e restiate i soli ad abitare la Terra. Ha
parlato alle mie orecchie il Signore degli eserciti. Edificherete molte case ma
resteranno deserte per quanto siano grandi e belle, e non vi sarà nessuno ad
abitarle».
Perché Isaia? Perché, scrive Settis", "la speculazione edilizia, la spietata
cementificazione del territorio senza nessun rapporto con la crescita
demografica (che invece, come tutti sanno, non c’è), l’accumulo di proprietà
terriera in funzione della mera rendita fondiaria hanno la conseguenza di
sigillare il suolo, impedire al suolo di respirare, di esercitare le sue
funzioni ecologiche di sistema. Questo passo di Isaia, insomma, mostra il
valore del pensiero profetico, evidenziando un accostamento, molto efficace
anche nel nostro contesto, tra la terra coltivata, o coltivabile, e le
abitazioni, che si affollano anche per il cieco impulso dell’uomo a
cementificare."
Sul tema della devastazione dell'ambiente, della sua
cannibalizzazione, un articolo a firma del noto studioso è apparso su Repubblica
lo scorso 12 febbraio. Lo pubblichiamo integralmente.
Ortica
”«È urgente
elaborare un pensiero comune pratico, uno stesso insieme di convinzioni volte
all’azione, innescata dal bene comune e indirizzata alla politica». Sono parole
di Jacques Maritain all’Unesco, nel clima della guerra fredda (1947). Ma
valgono ancora oggi come un’agenda minima per reagire alla devastazione della
natura, al cieco accanimento con cui (gli italiani in prima linea) continuiamo
a distruggerla cannibalizzando ambiente e paesaggi. Si suol dire che «la
bellezza salverà il mondo». Sono parole che Dostoevskij (nell’Idiota) mette in
bocca al principe Myškin, e che in quel contesto hanno un contenuto
intensamente mistico. Ma non dobbiamo usarle come un mantra auto-assolutorio:
dovremmo sapere, invece, che la bellezza non salverà il mondo se noi non
sapremo salvare la bellezza.
Intuizioni religiose e pensiero laico devono
convergere, secondo le parole di Maritain. Proviamo a darne qualche esempio.
Isaia 5,8: «Guai a voi che ammucchiate casa su casa e congiungete campo a campo
finché non rimanga spazio e restiate i soli ad abitare la Terra. Ha parlato
alle mie orecchie il Signore degli eserciti: “Edificherete molte case ma
resteranno deserte per quanto siano grandi e belle e, non vi sarà nessuno ad
abitarle”». Parole che paiono scritte per l’Italia di oggi, dove si edifica
“casa su casa” in nome della favoletta secondo cui solo l’edilizia è motore di
sviluppo; ma i 5 milioni di appartamenti invenduti e la cementificazione del
territorio senza nessun rapporto con l’inesistente crescita demografica
dimostrano che non è così. Al di là di questa suggestione, il passo di Isaia
evidenzia efficacemente il contrasto fra crescita delle case e devastazione dei
campi coltivati.
Altro esempio tratto dai libri sacri, il detto Ama
il prossimo tuo come te stesso, che è già nel Levitico e poi nei Vangeli.
Commentandolo, Enzo Bianchi ha scritto che questo precetto «non basta più; oggi
bisogna dire: “Amerai la Terra come te stesso”»; perché la Terra non è «uno
scenario per l’uomo, ma costituisce una comunità la cui relazione è stretta e
decisiva per gli animali, per le piante, per noi. In cui uno stesso spazio è
condiviso ed abitato ed in cui vive un unico destino, in cui ci deve essere
solidarietà per abitare armoniosamente in pace la Terra ». Ma che cosa voleva
dire Nietzsche, quando (in una pagina del Così parlò Zarathustra) scrive: «Il
vostro amore del prossimo è cattivo amore per voi stessi. Vi consiglio io forse
l’amore per il prossimo? No; io vi consiglio la fuga dal prossimo e l’amore
verso i più lontani; perché più nobile dell’amore per il prossimo è l’amore per
i più lontani e per l’avvenire. Il “futuro” e “quel che è più lontano” siano
dunque, per te, la causa che genera l’oggi». Dietro l’apparente svalutazione
del precetto evangelico emerge la sua radicalizzazione: in nome della
superiorità del futuro sul presente, Nietzsche suggerisce che dobbiamo amare
non tanto i “prossimi”, troppo simili a noi, bensì i lontani: soprattutto i
lontani nel tempo, le generazioni future. È per loro che dobbiamo preservare la
Terra.
Nella vivace discussione sui diritti delle
generazioni future, i temi ricorrenti sono la protezione del clima e
dell’atmosfera, la conservazione della biodiversità, la tutela dell’ambiente,
la gestione delle fonti di energia e dei rifiuti, il controllo delle
biotecnologie, la tutela del patrimonio culturale. Il nesso forte tra bellezza
e salute (del corpo e della mente), e dunque fra “paesaggio” e “ambiente”, è
parte essenziale di questa storia, che ha radici assai antiche. In un trattato
attribuito a Ippocrate, Arie acque luoghi(fine del V secolo a.C.) è chiaro il
nesso fra malattia e ambiente; perciò le patologie vi sono distinte fra “comuni”
a tutti e “locali”, cioè legate a infelici condizioni ambientali. Fu questa una
preoccupazione costante della medicina greca, e non solo: un decreto di Atene
del 430 a.C. vietava «di mettere i pellami a imputridire nel fiume Ilisso, di
praticare in quell’area la concia delle pelli e di gettarne gli scarti nel
fiume». Nello stesso spirito, Platone scrive nelle Leggi che «l’acqua si
inquina facilmente; perciò è necessario proteggerla per legge. E la legge deve
punire chiunque corrompa l’acqua sapendo di farlo, condannandolo a pagare
un’ammenda e a ripulire l’acqua a proprie spese».
Oggi dobbiamo ripetere gli stessi identici
principi, ma estendendo enormemente lo sguardo. Nessun crimine ambientale è
abbastanza lontano da noi da poterlo ignorare: non la deforestazione in
Brasile, non il “continente di plastica” (grande quattro volte l’Italia) che
galleggia nel Pacifico, non la distruzione di specie vegetali e animali nel
Madagascar, non le conseguenze dei disastri nucleari in Ucraina e in Giappone.
In questo pianeta senza vere lontananze, “l’amore verso i più lontani” fa
tutt’uno con la cura per noi stessi. Ma le generazioni future hanno davvero
diritti, anche se non sono in grado di rivendicarli? E in nome di che cosa noi
dobbiamo rappresentare oggi i loro diritti di domani?
Distinguiamo, come facevano i Romani, gli
immutabili principi del Diritto (ius)dalla mutevole varietà delle leggi
(leges),calibrate ad arbitrio dei governanti. Orientiamo la bussola sulle
istanze di fondo di un alto sistema di valori incardinato sulla protezione
della natura e della salute umana, ma anche sull’etica pubblica e la moralità
individuale. Le singole leggi possono conformarsi o meno a questi alti
principi, ma quando non lo fanno la disobbedienza civile è un dovere. Disobbedienza
ispirata dalla nozione di pubblico interesse, che rilancia temi assai antichi:
perché quando gli antichi Statuti dei Comuni e le leggi degli Stati preunitari
parlavano di bonum commune o di publica utilitas avevano di mira proprio i
diritti delle generazioni future, ed è per questo che hanno costruito per noi
le città che abitiamo, i paesaggi che andiamo devastando.
Nel suo Principio responsabilità(1979), Hans Jonas
scrive che «la comunanza dei destini dell’uomo e della natura, riscoperta nel
pericolo, ci fa riscoprire anche la dignità propria della natura, imponendoci
di conservarne l’integrità ». È «l’imperativo ecologico», che secondo Peter
Häberle comporta «un nuovo sviluppo dello Stato costituzionale, che deve ormai
assumere responsabilità verso le generazioni future, e perciò è obbligato a
tutelare l’ambiente, deve cioè diventare uno Stato ambientale di diritto». È di
qui che nascono la nozione di ecocidio e la proposta di creare un tribunale
internazionale contro i crimini ambientali. È di qui che ha origine il nesso
forte fra diritto ambientale e diritto alla salute, che si sta affermando nelle
nuove Costituzioni come quella della Bolivia (2009), che prescrive «un ambiente
sano, protetto ed equilibrato» per «gli individui e le comunità delle generazioni
presenti e future» (art. 33). Ma la priorità del bene comune è centralissima
già nella nostra Costituzione, in particolare nell’art. 9 (tutela del paesaggio
e del patrimonio artistico), nel suo intimo nesso con l’art. 32 (diritto alla
salute), evidenziato dalla Corte Costituzionale. Ambiente, paesaggio, beni
culturali formano un insieme unitario e inscindibile con la cultura, l’arte, la
scuola, l’università e la ricerca. Con esse, concorrono in misura determinante
al principio di uguaglianza fra i cittadini, alla loro «pari dignità sociale»
(art. 3), alla libertà e alla democrazia. Per la nostra Costituzione,
attualissima ma inattuata, la tutela dell’ambiente, del paesaggio, dei suoli
agricoli è strumento di libertà e di democrazia. Perciò è triste che si parli
tanto di cambiare la Costituzione, e così poco di metterne in pratica i
principi e lo spirito.”