SEGNALATE I LUOGHI DEL CUORE E DELLA PANCIA

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sabato 12 novembre 2016

Roberto Buffi l'ingegnere forestale che si occupa anche del benessere interiore


 
I contributi di valore non sono necessariamente legati all'attualità. Anzi, spesso con il tempo acquistano ulteriore pregnanza. Questo il motivo per cui pubblico integralmente un articolo apparso sul CdT del 5 dicembre 2015 a margine della giornata di riflessione sulla salvaguardia dei suoli.  L'articolo, a firma dell'ingegnere forestale Roberto Buffi, contiene spunti degni di riflessione (il grassetto è mio).
Ricordiamo che Roberto Buffi è uno dei protagonisti di "Boschi e missionari" documentario di Bruno Bergomi diffuso dalla RSI nel 2013 ma sempre valido.L'ingegnere è inoltre il curatore di Silvaforum, blog ricco di spunti per chi volesse approfondire l'argomento della cura e della protezione delle foreste anche per il benessere interiore. Grazie alla sua formazione di ricercatore al Forschungs- und Ausbildungszentrum für Tiefenpsychologie nach C. G. Jung und Marie-Louise von Franz di Zurigo, formazione che completa il suo lavoro di ingegnere forestale, Buffi propone un approccio atipico al territorio centrato sulla rivalorizzazione del rapporto uomo-natura alla luce delle nostre esigenze interiori:
"Vediamo quanto spesso progetti di gestione del territorio incontrano ostacoli dovuti a fattori irrazionali. Spesso sono riconducibili a un'insufficiente considerazione del mondo interiore, e alla mancata riflessione sul senso di quanto intendiamo fare. L'esperienza dimostra che nei nostri progetti è necessario investire nell'individuo, non soltanto nelle infrastrutture. Avanzano se hanno cultura."
Ma ecco l'articolo del 5 dicembre 2015. Buona lettura.
Ortica
 Il suolo è con l’acqua e l’aria il fondamento della vita sulla terra. È una realtà complessa, in assoluto l’habitat con la più alta biodiversità. Il numero di specie che vivono in pochi grammi di terra è strabiliante, va nelle migliaia, piccoli e piccolissimi organismi dai quali dipende quanto cresce in superficie. Centrali nei cicli dell’acqua e della materia, i suoli si formano in tempi lunghissimi. Sono il substrato su (in) cui crescono le piante, pertanto la base della produzione di biomassa. Fissano grandi quantità di CO2 , importanti in rapporto ai cambiamenti climatici.
I suoli hanno valore immateriale; le loro imperscrutabili oscurità sono caricate simbolicamente. In una prospettiva umana sono una risorsa non rinnovabile. Globalmente sono molto minacciati; l’uso dei suoli per l’edificazione avanza con ritmi crescenti, e l’erosione assume enormi dimensioni. Si osserva una progressiva alterazione delle loro proprietà fisiche, chimiche e biologiche, a seguito di errate pratiche agricole. Nell’UE annualmente vanno persi 1'000 km2 di suoli.
A questa situazione da allarme rosso la politica in sostanza non ha saputo far fronte. Nella società il suolo, rispetto all’acqua, all’aria e alla biodiversità, ha ricevuto e tuttora riceve minore attenzione. Un segnale positivo arriva dalle Nazioni Unite, con la proclamazione dell’Anno internazionale dei suoli 2015. Sabato 5 dicembre è la giornata internazionale dei suoli. Obiettivo è una maggiore coscienza dell’importanza vitale del suolo per l’umanità.
In Svizzera le problematiche attorno ai suoli sostanzialmente non cambiano, pur con accenti diversi. Fattore aggravante è l’intensa attività edificatoria. Il forte incremento demografico e uno standard materiale di vita “elevato” causano un insostenibile consumo della risorsa suolo, a ritmi sovra proporzionali rispetto all’incremento della popolazione. Distruggiamo circa 1 m2 di suolo agricolo il secondo. Annualmente l’edilizia occupa un’area corrispondente a quella del Lago di Zugo. Nel Cantone Ticino le cose stanno anche peggio; negli ultimi 25 anni sono stati edificati oltre 28 km2 di terreno. Per quanto riguarda il deterioramento dei suoli dovuto agli inquinanti la situazione si presenta in chiaro scuro. Per il Sud delle Alpi si hanno alcuni dati sparsi; si è a conoscenza di situazioni preoccupanti. Ad esempio gli apporti di azoto dovuti all’inquinamento atmosferico superano largamente i valori critici. La crisi dei suoli non è dovuta a insufficienti mezzi giuridici di tutela. I problemi risiedono nell’applicazione.
La Legge federale sulla pianificazione del territorio chiede uno sviluppo armonioso del Paese. I Cantoni devono “proteggere le basi naturali, come il suolo, l’aria, l’acqua, il bosco e il paesaggio”. L’Ordinanza contro il deterioramento del suolo mira a “conservare a lungo termine la fertilità del suolo”. Nel Cantone Ticino la Legge cantonale sullo sviluppo territoriale vuole “un uso misurato del suolo”. Il Piano direttore cantonale sostiene esplicitamente un uso parsimonioso del territorio, attraverso il contenimento degli insediamenti. Decisiva è ovviamente l’applicazione di questi e altri disposti da parte dei Comuni nel quadro dei Piani regolatori; devono prestare attenzione ai suoli. Ulteriori stringenti disposizioni a favore del suolo si trovano nella Legge federale sulla protezione dell’ambiente. Ovviamente la tutela del suolo dipende dalla preparazione degli attori, cittadini, funzionari e autorità comunali, cantonali e federali. Quanto si costata è che nei fatti e nei territori la protezione del suolo non è arrivata, o troppo debolmente. Dalla norma al fatto scattano tanti freni legati a interessi immediati.
Di fronte alla realtà del territorio non si può non avere l’impressione che nella gestione del territorio il suolo sia stato il parente povero della tutela ambientale. Ora, a seguito della revisione della Legge federale sulla pianificazione del territorio i Cantoni a breve devono ridimensionare le aree edificabili, adattandole al fabbisogno su un arco di 15 anni. È un passo. L’esercizio si presta comunque a numerose interpretazioni, ed è facile prevedere che il suolo, nella contrapposizione dei vari interessi, rischia nuovamente di ritrovarsi poco difeso. Infatti c’è poca consapevolezza. Quanto urge, è una vera, piena e sentita coscienza dei suoli, che vada oltre questo fatto tecnico dei 15 anni. C’è poca informazione. In Ticino l’eco dell’Anno internazionale dei suoli è stato molto scarso. Meritano di essere ricordate le iniziative della Confederazione, quali la pubblicazione del bel fascicolo “Meraviglie del suolo” edito dal Programma nazionale di ricerca “Risorsa suolo”, e l’allestimento del portale www.suoli2015.ch. La criticità dei suoli ha ovviamente un significato simbolico. È l’espressione di una cultura, la nostra, che non ha i piedi per terra.

giovedì 4 agosto 2016

La petizione su Avaaz per la Casa Rossa di Hesse finisce sul Corriere della Sera


"La Casa rossa non verrà toccata": lascia quanto meno perplessi la reazione della sindaca di Collina d'oro al lancio della petizione per salvare la Casa Rossa e il suo parco dal controverso progetto immobiliare targato Pavesi. Verrebbe da dire, come recita il proverbio, che non c'è peggior sordo di chi non vuole sentire. Mai si è parlato di un'eventuale demolizione della Casa dove Hesse visse per oltre 30 anni fino alla sua morte. Nella sua strenua opposizione a suon di ricorsi, la STAN - che ha sin dall'inizio osteggiato l'edificazione della parte sottostante del parco- ha sempre messo in evidenza la valenza di testimonianza storico-culturale del luogo dove visse il premio Nobel.

La casa e il suo parco sono un unicum, non vanno disgiunte l'una dall'altro:  edificare parte del parco significherebbe violare lo spirito di quei luoghi, meta di tanti estimatori dell'opera letteraria di Hesse. Eppure, il municipio non sembra tenere conto della mobilitazione creatasi sin dalla prima domanda di costruzione a difesa di questo importante luogo della memoria: nè le 3000 firme raccolte nel 2012, né  le proteste, le interrogazioni e gli appelli lanciati da più parti, né la creazione di un comitato internazionale per la creazione di un Parco Hermann Hesse, né la recente petizione promossa su Avaaz e tuttora in corso.

Lanciata lo scorso 6 luglio dal vicepresidente STAN  Benedetto Antonini,  la petizione ha sinora  raggiunto quota 1270 firme. A riprova che il destino della Casa rossa e del suo parco stanno a cuore a molti. Ma trincerandosi con pervicacia dietro la conformità del progetto e l'impossibilità, per il comune, di finanziare l'acquisto del parco, il municipio non sembra tenere conto di nulla di tutto ciò, limitandosi a ripetere che il progetto è conforme alla legge e che la Casa Rossa non verrà abbattuta. Intanto, però, della vicenda si è interessato anche il Corriere della sera che il 2 agosto, nella sua versione online, le ha dato ampio spazio tanto da precisare che la stessa petizione su Avaaz sarà lanciata anche in tedesco, francese e inglese. Fino a quando il Municipio di Collina d'oro si ostinerà a fare orecchio da mercante?

Ortica

giovedì 7 luglio 2016

Parco di Hermann Hesse, si passa ai supplementari: petizione su Avaaz


Dopo che lo scorso giugno il  municipio di Collina d'oro ha accordato la licenza edilizia alla variante di domanda di costruzione inoltrata nel 2015  per l'edificazione nel parco della casa di Hermann Hesse, domanda che si trascina da anni tra ricorsi e controricorsi, oggetto di petizioni e appelli, ecco che si passa ai supplementari.  Benedetto Antonini, vicepresidente della Stan - da sempre avversa all'idea di una edificazione all'interno del parco - ha lanciato una petizione in rete  niente che po' po' di meno su Avaaz, "il movimento  globale - come si legge sul suo sito- che porta e fa valere la voce dei cittadini dentro le stanze della politica".  La comunità conta quasi 44 milioni di membri in tutto il mondo e si è distinta  in campagne che sono riuscite a cambiare il corso della storia, come la più grande mobilitazione per il clima del 21 settembre 2014.  La petizione chiede al Consiglio di stato e al  Consiglio federale di salvare la casa e il parco dove visse per 30 anni Hermann Hesse.   

Ortica


venerdì 15 aprile 2016

Agri coltura e urbis cultura


Pubblico integralmente l'interessante contributo di Giancarlo Consonni "Agri coltura e urbis coltura: una cura comune per una crisi comune" avvenuto a margine di un incontro tenutosi a Milano lo scorso 27 gennaio su "Studiare il futuro già accaduto". Le sottolineature sono mie.
Buona lettura
Ortica


Quanto della trasformazione del mondo è frutto di un progetto consapevole e condiviso e quanto invece avviene nell’indifferenza o con la latitanza della politica? Politica ovviamente intesa nel senso più alto del termine, implicante il nostro essere parte di una società attenta alla direzione in cui si muove e in grado di apportare i correttivi per assicurare la migliore convivenza e il massimo grado possibile di benessere e felicità per il maggior numero di persone. Ci sono processi travolgenti che sembrano generarsi per meccanismi spontanei rispetto ai quali chi ha responsabilità di governo nella moderna democrazia si dimostra disattento o impotente, o, più spesso, connivente.

Si pensi all’agricoltura e agli insediamenti umani. Per tutta una fase iniziale dello sviluppo capitalistico - fase che, con riferimento alla Lombardia e alla Valle Padana, potremmo chiamare cattaneana, dal nome del suo massimo interprete -, le campagne hanno potuto essere descritte come un «edificio idraulico» e un «immenso deposito di fatiche» e le città essere celebrate come il contesto del manifestarsi della «magnificenza civile» (le definizioni sono, appunto, di Carlo Cattaneo).

Seppure in quella fase abbia avuto luogo una dilapidazione del patrimonio boschivo usato soprattutto come fonte energetica nelle prime lavorazioni della seta - e senza mai dimenticare che alle «fatiche» corrispondeva un elevato sfruttamento della forza lavoro -, si può dire che l’azione antropica su città e campagna sia andata di conserva esaltando le virtù sia della campagna che della città e il loro rapporto sinergico.

Nel configurarsi nell’arco di almeno un millennio di un assetto fisico e relazionale tutto sommato equilibrato, la politica ha avuto un ruolo abbastanza marginale. A guidare l’azione umana sono stati principi non scritti ma così radicati nel sentire comune e nei comportamenti che non avevano nemmeno la necessità di essere ratificati nel corpo legislativo. Ne richiamo due in particolare:

1) il patto fra le generazioni (le esistenti e le future) riguardante il mantenimento della capacità nutritiva della terra;
2) un modello di convivenza civile che, calato nelle forme insediative, ha mosso la storia della città verso una più netta affermazione dell’urbanità, che, a conti fatti, possiamo considerare come il lascito più alto della civilizzazione. Un’azione, questa, ulteriormente sostanziata nella prima metà dell’Ottocento dal rinnovarsi dell’idea operante della città come opera d’arte, che vedeva la nuova classe in ascesa, la borghesia, ricorrere alla bellezza come a un modo per legittimare la propria egemonia (in linea con una lunga tradizione).

Questi principi nel corso nel Novecento sono via via evaporati, con un’impennata negli ultimi decenni, senza che la politica se ne interessasse e mettesse in atto le opportune contromisure.

Un bilancio di medio-lungo periodo ci porta a concludere che, nell’ultimo secolo, agri coltura e urbis coltura hanno conosciuto una crisi parallela. Una crisi che, a dispetto delle apparenze, ha una radice comune nel venir meno del nesso tra l’antropizzazione e il colĕre, ovvero quel complesso di azioni che la lingua latina condensa in questo termine, in particolare l’avere cura e il venerare/onorare (che, ai fini del nostro ragionamento, possiamo laicamente attualizzare in riconoscimento e condivisione di valori comuni e attribuzione di ragioni di senso). Per questo non è fuori luogo parlare di una rottura epocale.

La crisi è chiaramente riscontrabile nei fatti concreti non meno che nel venir meno di una tensione ideale. Pratiche plurisecolari e principi saldissimi sono stati travolti dall’affermarsi di una realtà, insieme economico-sociale e territoriale, che possiamo denominare metropoli contemporanea, un organismo inedito nella storia dell’umanità, come lo è il modo di produzione capitalistico di cui è l’emanazione.

Tutt’uno con la rivoluzione industriale e i suoi sviluppi, la metropoli contemporanea ha avuto il suo motore primo nella messa a frutto delle specifiche economie esterne di città e campagna e soprattutto delle loro differenze, a cominciare dal divario nei costi riproduttivi della forza lavoro. Alla sua marcia trionfale ha concorso non poco la capacità di promuovere il sostentamento di ingenti masse e di consentire processi di emancipazione come mai si era verificato nella storia.

La fase attuale, contrassegnata dal predominio del capitale finanziario, è caratterizzata da un accentuarsi della concorrenza tra le realtà metropolitane conseguente alla globalizzazione in cui, oltre alla capacità dei contesti di attrezzarsi per far fronte alle nuove sfide, conta non poco la risposta ai problemi connessi al modello di sviluppo. Ne richiamo quattro:

- la dilapidazione di larga parte delle campagne ricadenti nella più diretta influenza dell’organismo metropolitano;
- l’abbandono, in molta parte di ciò che rimane del suolo agricolo, della cura volta a rigenerare gli elementi che assicurano la fertilità della terra;
- il dilagare nell’ultimo secolo di un’urbanizzazione estesa, informe, per lo più a bassa densità e a elevata entropia: un quadro ben identificato con il termine inglese sprawl;
- l’azione disgregatrice esercitata sul corpo della città compatta dalla rendita immobiliare e dalla speculazione, a cominciare dall’innesto di corpi estranei a elevata densità.

Questi processi strettamente intrecciati sono tutt’altro che esauriti. Ciò che le metropoli si trovano di fronte è una modalità insediativa e relazionale che presenta notevoli criticità su due fronti interdipendenti: la sostenibilità ecologica e la sostenibilità sociale.

Siamo alla resa dei conti di un modello di formazione e funzionamento degli insediamenti che ha avuto ed ha nella rete di trasporti su gomma il suo supporto. Il vantaggio iniziale offerto da questa modalità insediativa - essenzialmente riconducibile alla riduzione relativa della rendita fondiaria - si è rapidamente rovesciato in svantaggi.

Per cominciare, ne indico un paio:

- la forte dissipazione di risorse non rinnovabili (suolo, energia etc.);
- il gravare sul bilancio pubblico dei costi di realizzazione e di manutenzione delle reti (viabilità e trasporti, servizi primari).

Mentre sul primo punto si registra una crescita di consapevolezza e cenni di mobilitazione civile, l’attenzione, non solo degli addetti ai lavori, ma anche degli intellettuali e dei cittadini sul secondo punto è assai meno stringente. Eppure la crisi fiscale dello Stato e la stessa crisi economica hanno qui una loro radice strutturale e persistente.

Il modello insediativo e di funzionamento della metropoli contemporanea pesa sul bilancio dello Stato (ai vari livelli, a cominciare da quello locale) per via di una notevole sproporzione - e ingiustizia - nel riparto, tra settore pubblico e settore privato, delle spese relative ai cosiddetti processi urbanizzativi. Se per descrivere sommariamente il territorio usiamo l’immagine dell’albero, assimilando la pianta alle reti infrastrutturali pubbliche e i frutti alle costruzioni (per lo più private), possiamo dire che chi gode dei frutti non si assume per intero i costi di impianto e di manutenzione dell’albero. La sproporzione è particolarmente rilevante in Italia dove gli oneri di urbanizzazione - oltre a essere del tutto inadeguati al costo di realizzazione delle opere, per non dire della loro manutenzione - da un quindicennio possono essere sottratti al capitolo di spesa specifico per essere impiegati in altri capitoli, a cominciare dal funzionamento della macchina burocratica[1]. 

A ciò si aggiunge la possibilità, concessa per legge, di monetizzare quanto il privato non può assicurare in termini di dotazioni obbligate. Si pensi alla legislazione regionale per il recupero dei sottotetti che consente di trasformare in un tributo la mancata realizzazione della quota dei parcheggi di pertinenza; o ai vari casi in cui viene consentita la monetizzazione degli standard urbanistici. In tutto questo si evidenzia la propensione degli Enti Locali a favorire in tutti i modi il settore delle costruzioni pur di ottenere introiti per le casse pubbliche sempre più in sofferenza: poco denaro fresco, a fronte di un ben più rilevante esborso futuro da parte dell’ente pubblico, con un risultato certo: l’accumularsi esponenziale di un deficit nel bilancio dello Stato e delle sue articolazioni.

Le conseguenze sono devastanti anche e soprattutto sotto il profilo del governo delle trasformazioni territoriali. La sfera urbanistica, da tempo in sofferenza per lo sguardo corto degli amministratori pubblici, attenti solo ai cinque anni del loro mandato - tacendo dell’acquiescenza diffusa tra i cosiddetti esperti del settore -, è ormai sempre più vista e praticata dai gestori della cosa pubblica come una branca della fiscalità generale. Il che spiega la scarsa attenzione - quando non la rimozione - riservata alle questioni del progetto e dell’effettivo governo del territorio. Il territorio è un patrimonio e un bene comune a cui lo Stato attinge, svendendo il futuro del consorzio umano.

Parlano i fatti: anche il progetto di trasformazioni che hanno una portata rilevante per il destino delle città da decenni è del tutto demandato agli attori privati, ovvero a chi detiene le redini degli investimenti e della speculazione immobiliare (i grandi gruppi finanziari, la cui ‘potenza di fuoco’ è enormemente cresciuta con la globalizzazione). Ma la delega riguarda anche gli interventi di piccolo cabotaggio sul fronte dell’espansione insediativa; un ambito, questo, in cui l’esercito dei piccoli e medi investitori consegue nell’insieme un esito quantitativamente non meno rilevante di quello dei grandi operatori. La capacità della Pubblica amministrazione non solo di indirizzare, ma, più limitatamente, di discernere e di contrattare, è indebolita - quando non annullata - dalla convergenza che si è di fatto instaurata tra investitori immobiliari e amministratori pubblici. Una convergenza prossima alla connivenza che ha come esito un prezzo sociale altissimo, oltre a quello ecologico: la rimozione sia della difesa della città sia dell’attribuzione di qualità urbana e relazionale al nuovo ambiente costruito.

Una delle specificità di questo modello di sviluppo, del tutto assente nel mondo precapitalistico, è la sovrapproduzione. Una pratica ampiamente presente in campo edilizio a cui, oltre che una accentuazione della devastazione ambientale, corrisponde la sottrazione di ingenti risorse finanziarie ad altro tipo di investimenti. Da una recente analisi del
Centro studi di Unimpresa, basata su dati della Banca d’Italia, apprendiamo che in Italia a novembre 2015 «Oltre il 30% delle sofferenze delle banche è riconducibile al settore immobiliare»: 64 miliardi di euro su un totale di 201 miliardi di euro di prestiti non esigibili. Ma sulla bolla immobiliare il silenzio dei media rasenta l’omertà. A nessuno dei commentatori interessa addentrarsi in una materia che vede il settore immobiliare trasformato da alcuni decenni in pesante zavorra: in una spugna che assorbe risorse sottraendole a investimenti strategici, ovvero ad attrezzare i nostri contesti metropolitani in modo che non soccombano nella sfida economica globale.

Ma non meno rilevanti sono le conseguenze sul versante della sostenibilità sociale. Le sintetizzo in tre punti:

- l’homo metropolitanus, disperso in quelle che con grande intuito già nel 1893 Émile Veraheren chiamava Les campagnes hallucinées, paga in termini di tempo e denaro ciò che in apparenza risparmia sul versante del tributo alla rendita: l’erosione della risorsa tempo lo impoverisce (se è vero che il tempo disponibile per ciascuno può essere considerato come il vero misuratore della ricchezza[2]);
- la cosiddetta «città diffusa» non ha nulla della città e questo va a discapito delle qualità relazionali, per non dire dell’ingigantirsi della questione della sicurezza. A essere in pericolo è lo stesso processo di incivilimento, se è vero che l’urbanità costituisce il livello più elevato raggiunto dalla convivenza civile tanto nell’urbs (la città fisica) quanto nella civitas (la città degli esseri umani);


- l’indebolimento della tensione su cui si regge l’urbanità come habitus diffuso ha tra i suoi indicatori la caduta della bellezza civile. Le forme del nuovo non mentono: le archistar sono costrette a esercizi inventivi i cui esiti stravaganti mal nascondono il vuoto di valori. Un vuoto che, in estrema sintesi, nasce dalla sostituzione del coesistere al convivere (da cui la scarsa o nulla attenzione alle relazioni di prossimità a favore di un’esaltazione enfatica delle relazioni a distanza, complici le nuove tecnologie). Molti degli organismi fuori scala sorti di recente a Milano non sono altro che teche sigillate che riducono l’intorno a deserto relazionale e di senso. Siccome l’essenza dell’architettura sta nella relazione, oltre alla morte dell’urbanistica, assistiamo così a prove di morte dell’architettura.

Questo nostro è tempo di divaricazioni e di contrasti. Proprio quando la globalizzazione economica e l’informatizzazione sembrano unire e fare piccolo il mondo, si accentuano crepe antiche (tra culture, dove le religioni hanno grande peso) e se ne formano di nuove.

Una di queste lacerazioni riguarda il tempo: c’è una parte del reale che conosce mutamenti rapidissimi e una parte che arranca. Si allarga la forbice tra mondo neotecnico e mondo paleotecnico. Ci sono le frontiere dell’innovazione dove la tecnologia, e in parte anche la scienza, sono protagonisti su più fronti - informatizzazione virtuale, comunicazione, automazione, biologia, medicina ecc. - e un mondo che, al confronto, appare quasi fermo, impaniato nel suo assetto. Il neotecnico non rimuove il paleotecnico, se non in minima parte: lascia un esteso residuo, un’eredità della storia che presenta valenze variegate. Così assistiamo al divaricarsi tra il mondo dei flussi, in particolare di quelli immateriali, e la realtà fisica, in particolare quella degli insediamenti. Realtà, quest’ultima, dove il paleotecnico è, in una parte non trascurabile, il risultato di quello che non molto tempo fa - si pensi all’automobile - appariva come neotecnico, capace di rappresentare l’idea stessa di modernità (Le Corbusier, per fare un esempio, pensava che gli insediamenti umani andassero ridisegnati in toto pur di adattarli all’automobile).

In realtà quello che chiamiamo modernità è un succedersi di astrazioni, scollamenti e separazioni: nelle pratiche e nei saperi; tra pratiche e saperi; tra il fare e la responsabilità civile. L’astrazione più potente ed emblematica è la proprietà privata, per la quale ci si dimentica facilmente del vincolo dell’utilità sociale sancito, per restare in Italia, nella Costituzione repubblicana.

Se l’aria delle città rendeva liberi, l’aria della metropoli sembra aver liberato l’individuo sia dal vicinato, dalla sua tirannia ma anche dai suoi vantaggi, sia dalla cura del contesto stessa della vita. Così, mentre una parte sempre più consistente di popolazione è attratta nella sfera delle metropoli e delle megalopoli, l’immane opera costruttiva che vi corrisponde non è iscrivibile sotto il segno della città (che Claude Lévi-Strauss, in Tristi tropici, ha definito la «cosa umana per eccellenza»[3]). E questo a dispetto dell’abuso del termine città (un mascheramento che, al pari della devastazione, non conosce l’eguale nella storia).

Oggi anche nel pensiero che si interroga sulle strategie possibili, e dunque in quel che resiste nel pensiero politico per eccellenza, pesa una dicotomia fra istanze ecologiche e istanze civili. È più facile trovare convergenze sulle prime che sulle seconde ed è raro vederle poste insieme. Ma la dilapidazione delle risorse non rinnovabili e il dilagare di modalità insediative non urbane hanno una matrice comune. E la soluzione non può che essere cercata in una nuova alleanza che sappia tenere unite istanze ecologico-ambientali e valori civili.


giovedì 17 marzo 2016

La Cina dice no al cemento e alla perdita della sua identità architettonica


Pubblico integralmente un contributo apparso su "La Repubblica" del 26 febbraio dedicato alla retromarcia in atto da parte del governo cinese per preservare quel poco che rimane dell'antico patrimonio architettonico messo sotto pressione dall'avanzata del cemento. Un contributo che si inserisce nella riflessione in corso anche da noi sulla perdita identitaria, culturale e architettonica delle città, vittime della speculazione immobiliare. L'articolo, a firma Giampaolo Visetti (le sottolineature sono mie), è completato da un'intervista di Francesco Erbani a Vittorio Gregotti.
Buona lettura
Ortica

 
Il libretto rosso delle città, di Giampaolo Visetti

 
"La Cina non vuole perdere il poco che resta del proprio antico aspetto e impone lo stop all'architettura e all'urbanistica straniera. Basta grattacieli in vetro e acciaio, shopping centre che copiano Venezia e Parigi, metropoli stile Las Vegas, o palazzoni a forma di astronave. Contro la globalizzazione del cemento capitalista, più devastante della Rivoluzione culturale  maoista, nel futuro della superpotenza dell'Asia c'è il ritorno al profilo del passato imperiale. Un documento del comitato centrale del partito-Stato intima a funzionari e progettisti "di abbandonare le soluzioni eccentriche per attenersi alle caratteristiche storiche locali".

Il presidente Xi Jinping, chiudendo i lavori della commissione urbanistica nazionale, non ha usato giri di parole: "Chi disegna edifici e quartieri -ha detto- la smetta di inseguire la popolarità con opere volgari che scimmiottano le stravaganze occidentali". La "guerra agli architetti stranieri" prevede che le nuove costruzioni siano "adeguate, tradizionali e piacevoli" e abbandonino "esotismi, esagerazioni e stranezze prive di identità". Per il leader di Pechino la trasformazione cinese degli ultimi anni "riflette una mancanza di fiducia culturale, atteggiamemnti di dirigenti e architetti che confliggono con gli obiettivi politici".

Per trovare il precedente di un simile editto, si deve risalire al 1978. Mao Zedong era morto da due anni, templi e pagode cinesi erano stati rasi al suolo dalle guardie rosse, 88 cinesi su 100 erano contadini e vivevano di sussitenza in villaggi medievali. La commissione urbanistica del partito comunista, pronta all'ascesa di Deng Xiaoping e al suo "contrordine compagni arricchirsi è glorioso", varò la prima urbanizzazione forzata del Paese. Oggi il 53 per cento dei cinesi vive nelle megalopoli industriali, la nazione vanta il maggior numero di miliardari e la più numerosa classe media del pianeta. ma lo sfacelo non è occultabile nemmeno dalla censura.

Città e strade tutte uguali, traffico paralizzato, aria tossica, famiglie distrutte e una società implosa per solitudine e sradicamento. È il prezzo della crescita economica, ma con la grande frenata la Cina non vuole pagarlo più. Sotto accusa finisce così lo "squallido e banale skyline d'importazione".

Il vero obiettivo del "nuovo Mao" è però impedire "il contagio del virus occidentale": assieme ai grattacieli "pensati per l'Amerca e rivenduti al Giappone" cerca infatti di "insinuare nel nostro popolo pure la democrazia". "per la Cina è un pericolo mortale - ha detto Xi Jinpéing - che tenta di demolire l'aspetto di una civiltà per distruggerne anche i valori". Rispetto alla furia devastatrice del Grande Timoniere e alla sspeculazione selvaggia proseguita anche con Hu Jintao, si annuncia davvero un'altra rivoluzione: una Cina impegnata a ricostruire se stessa per scongiurare il rischio di non essere più nulla, colonizzata sia dai palazzoni prefabbricati che dai modelli di vita globalizzati. Il leader cinese punta il dito contro chi disegna edifici e metropoli, ma parla a chi, assieme agli standard dell'edilizia internazionale, assorbe "i cosiddetti valori universali e la retorica dei diritti umani".

Il timore è che "una civilità millenaria fisicamente occidentalizzata in due decenni, si scopra ricolonizzata anche nella mente e nello spirito". Liu Shilin, capo dell'Istituto di scienze urbane dell'università Jiao Tong si Shangai, ha promesso che entro poche settimane le autorità renderanno noi i criteri per definire chiaramente cosa sia la bandita "architettura strana". Nessuno osa dirlo, ma nella cilla dell'imitazione l'imbarazzo è generale. Xi Jinping ha appena visitato la sede della tivù di Stato, nota a Pechino come "il grande pantalone". Oggi a Shangai il G20 economico si riunisce nei grattacieli di Pudong, icona della "bizzaria delle archistar occidentali": uno è chiamato "cavatappi", uno "missile", l'ultimo "anguilla". Poco distante sta per essere inaugurato "Chinadisney", il più grande parco divertimenti del mondo, fotocopia dell'originale americano.

Nella capitale gli antichi hutong sono stati rasi al suolo per fare posto a strade e centri commerciali. Nelle province rurali  le millenarie siheyuan vengono demolite dagli speculatori che vendono palazzine a blocchi progettate in Svezia. Ai piedi della Grande Muraglia, paloscenico privo di neve delle Olimpiadi invernali 2022 già sorgono villaggi turistici clonati in Austria e Svizzera, con birrerie germaniche e pub inglesi. L'originalità dell'estetica cinese, dalle pagode ai templi buddisti, dalle sale da tè alle risaie terrazzate, si è autoestinta nel tempo, ma l'accusa di Xi Jinping oggi  non liquida un "passato imperiale o borghese", bensì il "presente straniero imposto dall'esterno". Per la prima volta la distruzione dei luoghi storici e dello stile nazionale non è promossa internamente dal potere che succede al potere, ma "dall'attrazione irrestitibile per il gusto, la tecnica e il business dell'Occidente che cancella l'Oriente".

Per Xi Jinping tutelare "l'identità cinese" è un'operazione di propaganda nazionalista e patriottica precondizione per salvare l'egemonia dell'autoritarismo comunista. Per chi ama la cultura, l'arte e il paesaggio è invece una questione di rinascita civile.

"Chiedo alle autorità - ha detto Wang Shu, vincitore del Protzker Prize per l'architettura - di salvare la Cina da una cementificazione e da una speculazione di Stato che portano all'autocancellazione del Paese e del suo Popolo". Per il creatore dello straordinario museo di storia di Ningbo "una globalizzazione architettonica al ribasso spoglia il Paese del suo carattere e l'intera umanità di un patrimomnio estetico irripetibile".  Il paradosso è che il Governo attacca i progettisti, minacciando di "rimuovere le strutture eccentriche entro cinque anni", mentre questi accusano "lo Stato corrotto che promuove per primo lo svuotamento della propria civiltà".

Due anni fa l'orgoglio della nomenclatura rossa era il New Century Global Centre di Chengdu, 50mila metri quadri di cemento, stile Manhattan, esaltato come "l'edificio più grande del mondo dove si può vivere dal giorno della nascita a quello della morte". Ora Pechino fa marcia indietro, promette di tutelare ciò che è stato risparmiato dalle ruspe, chiude le porte all'Occidente e ripropone il "modello Cina".

Per i cinesi sperare in città meno squallide e crudeli è una buona notizia. Quella cattiva è che il bando alle "sovversioni occidentali" non riguarda solo gli edifici, ma prima di tutto le idee: la prima è il sogno, in una strada qualsiasi, di sentirsi liberi.


DI SEGUITO L'INTERVISTA DI FRANCESCO ERBANI A VITTORIO GREGOTTI

 

La prima volta che Vittorio Gregotti andò in Cina era il 1963. Il potere era nelle mani di Mao Zedong e Zhou Enlai. Il marxismo era radicato nel mondo contadino e dominava una cultura antiurbana. Un bianchissimo stile sovietico improntava gli edifici pubblici. Quando ci è tornato, quarant'anni dopo, per progettare Pujiang, un insediamento da 80mila abitanti, la Cina era diventata la prateria per città da 15 milioni e più residenti, in cui scorazzavano architetti dalle bizzarre e magniloquenti fantasie. Ora si vorrebbe tornare indietro, a forme architettoniche più in linea con la tradizione e città medio-piccole. 

Architetto Gregotti, che ne pensa di questo richiamo al passato?

"Le megalopoli cinesi non sono come quelle africane o sudamericane, dove si accalcano baracche su baracche. Ma è evidente che queste città di spropositate dimensioni sono agglomerati di periferia. E sono fuori controllo. Manifestano sofferenze insormontabili: il trasporto, gli equilibri ambientali. Avendo la possibilità di pianificare, si tratta di un proposito ragionevole. Non so quanto sia attuabile in concreto".

Ma si può immaginare un recupero di modelli più cinesi?

"Qui il discorso diventa complesso. Le tradizioni cinesi sono tante. La storia dell'urbanistica e dell'architwettura cinese è vasta e piena di influenze. A che cosa ci si riferisce? Agli hutong, i recinti ce racchiudevano più abitazioni singole e che per secoli hanno costituito la struttura primaria dell'organismo urbano? La verità è che anche in Cina non si sopportano più le forme spinte della globalizzazione che ha prodotto un linguaggio universale." 

E' arrivata al capolinea la stagione dell'architettura spettacolo?

"Sì, con l'aggravante che in Cina si è realizzata un'architettura funzionale al più spinto capitalismo finanziario". 

Ma la Cina è un paese comunista. Gli architetti non si sono messi al servizio del regime?

"No. Buona parte di quegli architetti si sono impegnati in un ritratto edificante della globalizzazione. E hanno scelto forme mutevoli che rispecchiassero la duttilità del mercato e l'apologia del consumo".

In Cina hanno lavorato Rem Koolhaas e Zaha Hadid.

"In accordo con le ideologie neoliberiste, anche in Cina in molti hanno teorizzato l'insignificanza del disegno urbano, l'indifferenza di un oggetto architettonico rispetto alla città. E hanno capito che il capitalismo finanziario globale è tutt'altro che incompatibile con il sistema cinese".

Anche lei a progettato lì.

"Abbiamo disegnato un insediamento di circa 5mila appartamenti, una ventina di chilometri a sud di Shanghai. Ma ne è staat costruita una parte. Mancano gli edifici pubblici, sintomo di quanto conti in Cina la forza del privato".

venerdì 11 marzo 2016

Claudio Ferrata e il lago Ceresio: plaidoyer per la contemplazione



Nei giorni scorsi mi sono imbattuta in un bel articolo di Claudio Ferrata apparso sul Corriere del Ticino. Il titolo era "Il lago Ceresio: contemplazione o offshore?".  Il contributo merita una riflessione poichè affronta il problema spinoso di cosa si intenda per valorizzazione del nostro patrimonio paesaggistico e, di riflesso, le scelte che gli operatori turistici sono chiamati a fare. Per lungo tempo Lugano ha vissuto di un turismo attratto dalle sue bellezze naturali e -aggiungiamo noi- da quelle di un'architettura ancora preservata. Oggi Lugano cerca affannosamente di risalire la china offrendosi come contenitore di eventi suscettibili - stando ai promotori - di rilanciare un turismo asfittico, senza rendersi conto che la strada imboccata da oltre un decennio a questa parte è la principale causa del suo declino. Chi è causa del suo mal, pianga sé stesso, verrebbe da dire: la bellezza del paesaggio è ormai un lontano ricordo. Deturpata dalla bulimia edificatrice, la Lugano di un tempo è ormai l'ombra di sé stessa. A nulla o poco serve investire in eventi che contribuiscono ad aumentare traffico, inquinamento e turismo di massa anziché puntare sulla riqualifica del territorio. Discorso da dietrologi, diranno alcuni. Ma la dietrologia è forse quella di chi rincorre, scimmiottando altri lidi, facili soluzioni che durano lo spazio di qualche giorno. Di seguito, la versione integrale del contributo di Claudio Ferrata.
Ortica

 

"Di passaggio nel borgo di Lugano nell’agosto del 1932, lo scrittore francese François-René de Chateaubriand compì un lungo giro in barca nel golfo lasciandosi incantare dalle meraviglie del lago di quella «piccola cittadina dall’aspetto italiano». Questo non è che uno dei tanti esempi che testimoniano dell’apprezzamento delle acque del Ceresio che venivano assimilate alla calma, a un rapporto con la natura, alla contemplazione del paesaggio. Proprio per queste caratteristiche la cittadina del Ceresio era apprezzata da una numerosa clientela: la valorizzazione della dimensione lacustre aveva permesso a una piccola località come Lugano di inserirsi con una certa facilità nel circuito del nascente turismo internazionale. Nel medesimo periodo, precisamente nel 1925, Hermann Hesse, che già risiedeva a Montagnola e che si era innamorato del paesaggio del sud del Ticino, pubblicava il suo racconto dedicato a quella che chiamava «la città per stranieri al sud» nel quale, pur manifestando il suo attaccamento per la regione e considerando Lugano come una sorta di «città ideale», incitava i suoi abitanti a mantenere quegli elementi che rendevano attrattivi e unici i suoi paesaggi.

Cito questi due autori perché la stampa ci ha recentemente informato che ai numerosi «eventi» che vengono organizzati nella nostra città se ne aggiungerà uno nuovo, che coinvolge direttamente le acque del golfo. Infatti, a inizio giugno, Lugano ospiterà una tappa del campionato mondiale di motonautica offshore con catamarani XCat (extreme catamaran).

Nel corso della gara, queste formule 1 degli specchi d’acqua percorreranno 20 volte un anello che le porterà dalla foce del Cassarate sino a Caprino, poi a Paradiso e da Paradiso di nuovo verso la foce. I motori di 400 cavalli che permettono a queste imbarcazioni di raggiungere i 200 km/h, produrranno notevoli emissioni sonore e l’intero golfo sarà inagibile per il periodo delle prove e della gara. La nuova, e tanto apprezzata, sistemazione della foce del Cassarate, progettata pensando al rapporto armonioso con l’acqua, ospiterà alcune strutture di questa manifestazione (servizi tecnici, torre di controllo e «palco vip»).

Si prospetta quindi un uso del lago ben diverso rispetto a quello dei pescatori, dei canottieri e dei canoisti, dei velisti, dei turisti da diporto che del lago apprezzano, oltre all’aspetto sportivo, la calma, i riflessi e i colori delle acque, la dimensione estetica.

Davanti a questo attivismo del pubblico e del privato nell’autorizzare e organizzare manifestazioni di questo genere (si pensi al «Rombo day» o al circuito della «Formula E», progetto che ha fatto discutere e che al momento è sospeso) che occupano la città in modo invasivo e poco rispettoso delle identità locali e paesaggistiche, occorrerebbe domandarsi se eventi di questo genere siano opportuni e non siano controproducenti. Permettono veramente di risolvere i problemi che vive il turismo nel nostro paese? Rappresentano veramente ciò di cui è alla ricerca il turista che ci visita? Questo non preferirebbe piuttosto ritrovare alcuni tratti di quella cittadina tanto apprezzata dai visitatori del secolo scorso di cui facciamo tutto il possibile per cancellare anche le ultime tracce? Siamo sicuri che adottare il modello di sviluppo di Montecarlo o di Dubai sia veramente la migliore operazione che si possa fare per la nostra città? Le acque del lago costituiscono una grande risorsa per la città. Dovremmo allora valorizzare le qualità del nostro paesaggio in modo rispettoso e recuperare e aggiornare quel «senso del lago» che tanto era apprezzato dai viaggiatori e turisti che avevano fatto di Lugano la loro meta di elezione. Lasciamo scelte come quella della motonautica offshore ai Paesi del Golfo – dai quali questa manifestazione proviene – che adottano modelli di sviluppo «globalizzati» e non proprio sostenibili." 

giovedì 10 marzo 2016

Alberi e patrimonio a rischio: appuntamenti da non perdere


Riceviamo  e pubblichiamo volentieri una serie di appuntamenti dedicati alla tutela dei nostri alberi , del nostro patrimonio e del nostro ambiente. Segnateveli.
Iniziamo con il primo. In calendario l'11 marzo (ore 20'00) all'Auditorio dell'USI vedrà protagonista Maurizio Pallante, fondatore della decrescita felice. A Lugano presenterà il suo nuovo libro "Destra e sinistra addio".
Sabato 19 marzo Nicola Schoenberger, biologo, propone un trekking urbano dedicato alla scoperta degli alberi monumentali -quei pochi rimasti, aggiungo io- di Lugano. L'appuntamento, e come poteva essere altrimenti, è alle 14'00 presso la sequoia gigante di Riva Caccia, davanti a Villa Malpensata.
Mercoledì 23 marzo, sempre all'auditorio dell'USI, sarà la volta della conferenza "una città senz'alberi è morta", di Daniele Zanzi, agronomo e esperto di arboricoltura urbana che parlerà di esperienze e obbiettivi della gestione conservativa degli alberi urbani. Inizio alle ore 20'00.
Per concludere in bellezza, sabato 26 marzo alle 14'00 si parte alla scoperta degli edifici a rischio di demolizione, altro trekking urbano guidato dall'architetto Benedetto Antonini che metterà in evidenza come la scomparsa del patrimonio architettonico di una città vada di pari passo con il rischio di perdita di identità da parte dei cittadini che la abitano. L'appuntamento è per le 14'00 al Piazzale di Besso, dove è in corso di demolizione due vecchi edifici (nonostante l'ISOS: ne abbiamo parlato). 
Rimgraziamo Melitta Jalkanen per le segnalazioni!

Ortica

mercoledì 2 marzo 2016

Villino Lüthi a Montarina: il Cds bacchetta Lugano e revoca la licenza di costruzione

Tra ricorsi e controricorsi, si è protratta per oltre due anni la vertenza per il restauro di Villa Lüthi - bene protetto d'interesse cantonale nel quartiere di Montarina - e per l'edificazione sul mappale adiacente di una nuova costruzione. Ma lo scorso gennaio, il Consiglio di stato vi ha messo fine revocando la licenza accordata dal Municipio di Lugano nonostante la lunga serie di inosservanze e di carenze del progetto. La decisione del Comune - ha sentenziato - "ha violato il diritto, in quanto costitutiva di un eccesso negativo di potere". Il Governo ha inoltre bacchettato il Municipio che sosteneva l'inapplicabilità dell'ISOS "perché il PR di Lugano non lo ha ancora recepito": una sentenza che pesa come un macigno dopo la recente demolizione, sul piazzale di Besso, di edifici protetti dall'Inventario federale.  

immagine STAN

La decisione con la quale il Consiglio di stato ha accolto il ricorso della Società ticinese per l'arte e la natura - che ha pubblicato integralmente la sentenza- fa stato di una lunga lista di inadempienze rilevate nella domanda di costruzione:  dalla carenza di informazioni per il computo dell'area verde, al mancato rispetto delle distanze dal confine e tra gli edifici passando per la mancata attenzione alla tutela del giardino. In particolare, il progetto prevedeva la sostituzione delle piante esistenti (alberi d'alto fusto) nonostante il loro dissodamento sottostia all'obbligo di una richiesta di autorizzazione. Richiesta, tuttavia, che non era stata inoltrata.

Altra lacuna e non da poco: il progetto non rispettava il principio dell'inserimento armonioso nello spazio circostante, principio ancorato nella nuova Legge sullo sviluppo territoriale: "Nella misura in cui non ha applicato l'art. 109 cpv 2 Lst, il Comune non ha fatto uso della latitudine di giudizio né dell'apprezzamento conferitogli dalla predetta norma. La decisione del Municipio viola così il diritto, in quanto costitutiva di un eccesso negativo di potere".   

Dulcis in fondo: stando alla Commissione federale dei monumenti storici nella tutela di un bene protetto, il contesto è parte essenziale del monumento. E nel caso specifico, questo contesto è giustappunto tutelato dall'Inventario federale ISOS.  Ne consegue che nel perimetro di rispetto non sono ammessi interventi suscettibili di  compromettere la conservazione o la valorizzazione del bene protetto. Per il quartiere di  Montarina, l'Inventario federale ISOS impone "una conservazione integrale di tutti gli edifici, parti dell'impianto e degli spazi liberi: l'eliminazione di elementi perturbanti nonché il divieto di demolizione e di nuove edificazioni e l'attuazione di norme rigorose per i rifacimenti".  Più chiaro di così. Ma non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire e peggior cieco di chi non vuol vedere.

Ortica

mercoledì 24 febbraio 2016

Mendrisio: graziata Villa Andreoli


Se Besso piange, Mendrisio ride.  Villa Andreoli a Mendrisio, uno degli ultimi esempi superstiti di architettura Liberty in Ticino, potrà continuare a fungere da testimonianza di un movimento che ebbe una breve diffusione anche nel nostro Cantone.
immagine tratta da L'Informatore
Due anni fa, la sua paventata demolizione aveva suscitato l'opposizione dei Verdi e della Società per l'Arte e la Natura che, in quell'occasione, aveva sottolineato come per l'ISOS l'edificio fosse meritevole del massimo obiettivo di salvaguardia. E se l'intervento congiunto di Verdi e STAN ha convinto il Consiglio di stato a preservare Villa Andreoli scongiurando la scomparsa di questa rara testimonianza del periodo Liberty in Ticino, lo storico edificio ora si prende la sua bella rivincita e sarà restaurato. Senza contare che Villa Andreoli ha una storia che ne fa parte integrante della memoria collettiva del magnifico borgo. Infatti, forse non tutti sanno che nel 1915 divenne la sede ufficiale della Croce Rossa di Mendrisio, come ho scoperto nell'articolo del  7 novembre 2014 apparso sull'Informatore.
Ortica

Ruspe al piazzale di Besso: politici al traino



Lascia l'amaro in bocca la demolizione dell'immobile di inizio Novecento sul Piazzale di Besso, oggetto, neanche una ventina di giorni fa, di una interpellanza interpartitica firmata da ben 34 consiglieri comunali di Lugano.

Immagine da La Regione
Lascia l'amaro in bocca constatare, una volta di più, l'incapacità dei politici di tutelare tempestivamente un patrimonio sempre più esiguo; constatare come spesso e volentieri la società civile funga da traino a chi dovrebbe essere invece in prima linea nel salvaguardare quel poco che resta; constatare il dispregio, da parte degli speculatori, dell'Inventario federale ISOS per il quale l'edificio meritava l'obbiettivo di salvaguardia completa. Rimangono più che mai attuali e legittime le domande che mi ero posta lo scorso 9 febbraio: come è stato possibile il rilascio di una licenza edilizia a fronte del carattere vincolante dell'ISOS? Forse le autorità preposte non erano al corrente dell'esistenza di tale inventario? O forse non erano al corrente del suo carattere vincolante? E se lo erano, come giustificare l'avere rilasciato il permesso di demolizione?

Ortica

martedì 9 febbraio 2016

Demolizioni al piazzale di Besso: e il rispetto dell'ISOS?


Ancora una volta ad essere al centro dell'attenzione è la speculazione immobiliare che, poco a poco ma sempre più voracemente, sta snaturando i nostri quartieri. Ultimo in ordine di tempo, quello di Besso dove - nell'ambito del rifacimento della stazione- è prevista la demolizione di tre case che costituiscono il fronte più antico dell'omonimo piazzale.  Sul caso, lo scorso 5 febbraio, è stata presentata un'interpellanza interpartitica sottoscritta da ben 34 consiglieri comunali. Ma ancora una volta, la politica, impotente, è messa davanti al fatto compiuto. Eppure, la licenza edilizia concessa va a toccare due case di cui una, con la facciata interamente decorata, è addirittura menzionata nel volume "Decorazioni pittoriche del Luganese". Gli edifici non sono protetti dall'inventario dei beni culturali, tuttavia, per le due case dei primo Novecento, l'ISOS prevede l'obbiettivo di salvaguardia completa per quella centrale con la facciata decorata e la salvaguardia limitata per quella d'angolo con via Borromini.
E qui sta il nodo della questione: come è stato possibile rilasciare una licenza edilizia? Due le possibilità: o le autorità preposte al suo rilascio non erano al corrente del carattere vincolante dell'Inventario federale  -e la cosa è grave - oppure se ne sono fatte allegramente un baffo - e la cosa è ancora più grave-.  Il carattere vincolante dell'ISOS deriva sia dalla famosa sentenza del Tribunale federale sia  dal suo inserimento nel PD.  L'obbligo di rispetto dell'Inventario è tra l'altro un punto cardine dell'iniziativa STAN che - accettata in larga misura dall'elettorato nel dicembre 2014 - prevede entro sei mesi dalla sua accettazione l'allestimento di un elenco provvisorio di beni da tutelare da assimilare una zona di pianificazione (art. 27 LPT) della durata di cinque anni e prorogabile secondo la legge. E in tale elenco provvisorio vanno iscritti anche i comparti edificati e non edificati censiti dall'ISOS. Cosa risponderà il lodevole Municipio agli autori dell'interpellanza e ai cittadini che hanno votato a favore dell'iniziativa e dell'applicazione dei suoi postulati?
Ortica

venerdì 5 febbraio 2016

Heiner Hodel, Villa Argentina e il degrado del verde urbano


"Per creare il futuro bisogna guardare al passato": a dirlo, guarda caso, non è un becero nostalgico passatista, bensì Heiner Rodel, architetto del paesaggio responsabile dell'elenco dei giardini storici ICOMOS-FSAP per il canton Ticino.  A Rodel, che lo scorso anno ha aderito al Comitato internazionale per il Parco letterario Hermann Hesse,  è stato commissionato un progetto per il recupero dell'integralità del parco storico della villa da parte del Comitato Parco di Villa Argentina, da anni in prima linea per la sua tutela. Ed è nel corso di una recente intervista a "Ticino Welcome" che il  presidente della sezione ticinese della Federazione svizzera degli architetti del paesaggio (FSAP)  ne ha ribadito l'importanza, poiché ai suoi occhi  è un insieme di notevole valore culturale: "Oltre alla testimonianza culturale della villa vi sono elementi del parco intimamente legati a questo edificio (...) tutti questi elementi sono importanti testimonianze di grande valore culturale, degne di essere restaurate e conservate. Nel parco di Villa Argentina convivono elementi caratteristici dei giardini sia all'italiana sia all'inglese, la cui moda fu tramandata durante tutta la seconda metà del XIX secolo".


dal blog ParcodiVillaArgentina
Il rispetto della storicità del luogo abbinato alla valorizzazione dei suoi contenuti culturali hanno dunque guidato Heiner Rodel: per l'architetto, infatti, "la formazione dell'architetto del paesaggio è votata al rispetto dei luoghi, della storia, delle tradizioni locali e dell'ambiente (...)" "nel rispetto totale del passato". Purtroppo, la forte urbanizzazione degli ultimi decenni, la speculazione edilizia e la conseguente penuria di superfici libere, rendono difficilmente attuabile la messa in pratica di quello che dovrebbe essere lo spirito della professione. Per Rodel sono necessarie strategie offensive che coinvolgano le autorità e i professionisti attivi nella pianificazione del paesaggio:  strategie volte alla rinascita di una cultura del verde urbano, alla rivalutazione del paesaggio degli spazi pubblici aperti e alla conservazione dei giardini storici, pubblici e privati. E qui l'affondo: il degrado del verde urbano si legge ovunque. "Le alberature dei viali hanno fatto spazio a nuove corsie di scorrimento", in ambito privato "giardini, siepe e alberature hanno fatto posto a parcheggi e garage. In un contesto così degradato, appare allora evidente un obbligo nei confronti delle generazioni future".  

Obbligo che passa da una vera e propria inversione di rotta alimentata da un profondo cambiamento culturale che coinvolga tutti in prima persona. Ma "lo scontro tra interessi culturali condivisi e opportunità economiche effimere impedisce la presa di adeguate decisioni dettate da questa nuova sensibilità". Eppure segnali inequivocabili giungono dalla popolazione, sempre più consapevole dell'importanza di salvaguardare quel poco di verde che ancora rimane: lo testimomia l'indignazione di fronte al recente taglio, a Lugano,  di 26 ippocastani sani lungo il fiume Cassarate. Indignazione che si è coagulata nel neocostituito "Libero movimento civile cittadini Nuova Lugano/stop taglio alberi". Pronto, di fronte all'albericidio in corso, a costituirsi parte civile per i danni "avvenuti e futuri". Tagli incomprensibili a fronte dell'auspicio di un professionista che si batte per la preservazione del verde pubblico di mantenere e rivalutare alberi e giardini ancora esistenti. D'altronde, annota Rodel, "se si vogliono creare nuovi parchi e giardini pubblici nel tessuto urbano del Cantone, bisogna partire dai parchi sopravvissuti delle vecchie ville. Il vero strumento per salvare queste oasi verdi ancora esistenti è costituito dai piani regolatori comunali e dalle schede del Piano Direttore Cantonale; ciò vuol dire che le autorità hanno il compito di pianificare e salvaguardare". Non aggiungo altro.


Ortica