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giovedì 17 marzo 2016

La Cina dice no al cemento e alla perdita della sua identità architettonica


Pubblico integralmente un contributo apparso su "La Repubblica" del 26 febbraio dedicato alla retromarcia in atto da parte del governo cinese per preservare quel poco che rimane dell'antico patrimonio architettonico messo sotto pressione dall'avanzata del cemento. Un contributo che si inserisce nella riflessione in corso anche da noi sulla perdita identitaria, culturale e architettonica delle città, vittime della speculazione immobiliare. L'articolo, a firma Giampaolo Visetti (le sottolineature sono mie), è completato da un'intervista di Francesco Erbani a Vittorio Gregotti.
Buona lettura
Ortica

 
Il libretto rosso delle città, di Giampaolo Visetti

 
"La Cina non vuole perdere il poco che resta del proprio antico aspetto e impone lo stop all'architettura e all'urbanistica straniera. Basta grattacieli in vetro e acciaio, shopping centre che copiano Venezia e Parigi, metropoli stile Las Vegas, o palazzoni a forma di astronave. Contro la globalizzazione del cemento capitalista, più devastante della Rivoluzione culturale  maoista, nel futuro della superpotenza dell'Asia c'è il ritorno al profilo del passato imperiale. Un documento del comitato centrale del partito-Stato intima a funzionari e progettisti "di abbandonare le soluzioni eccentriche per attenersi alle caratteristiche storiche locali".

Il presidente Xi Jinping, chiudendo i lavori della commissione urbanistica nazionale, non ha usato giri di parole: "Chi disegna edifici e quartieri -ha detto- la smetta di inseguire la popolarità con opere volgari che scimmiottano le stravaganze occidentali". La "guerra agli architetti stranieri" prevede che le nuove costruzioni siano "adeguate, tradizionali e piacevoli" e abbandonino "esotismi, esagerazioni e stranezze prive di identità". Per il leader di Pechino la trasformazione cinese degli ultimi anni "riflette una mancanza di fiducia culturale, atteggiamemnti di dirigenti e architetti che confliggono con gli obiettivi politici".

Per trovare il precedente di un simile editto, si deve risalire al 1978. Mao Zedong era morto da due anni, templi e pagode cinesi erano stati rasi al suolo dalle guardie rosse, 88 cinesi su 100 erano contadini e vivevano di sussitenza in villaggi medievali. La commissione urbanistica del partito comunista, pronta all'ascesa di Deng Xiaoping e al suo "contrordine compagni arricchirsi è glorioso", varò la prima urbanizzazione forzata del Paese. Oggi il 53 per cento dei cinesi vive nelle megalopoli industriali, la nazione vanta il maggior numero di miliardari e la più numerosa classe media del pianeta. ma lo sfacelo non è occultabile nemmeno dalla censura.

Città e strade tutte uguali, traffico paralizzato, aria tossica, famiglie distrutte e una società implosa per solitudine e sradicamento. È il prezzo della crescita economica, ma con la grande frenata la Cina non vuole pagarlo più. Sotto accusa finisce così lo "squallido e banale skyline d'importazione".

Il vero obiettivo del "nuovo Mao" è però impedire "il contagio del virus occidentale": assieme ai grattacieli "pensati per l'Amerca e rivenduti al Giappone" cerca infatti di "insinuare nel nostro popolo pure la democrazia". "per la Cina è un pericolo mortale - ha detto Xi Jinpéing - che tenta di demolire l'aspetto di una civiltà per distruggerne anche i valori". Rispetto alla furia devastatrice del Grande Timoniere e alla sspeculazione selvaggia proseguita anche con Hu Jintao, si annuncia davvero un'altra rivoluzione: una Cina impegnata a ricostruire se stessa per scongiurare il rischio di non essere più nulla, colonizzata sia dai palazzoni prefabbricati che dai modelli di vita globalizzati. Il leader cinese punta il dito contro chi disegna edifici e metropoli, ma parla a chi, assieme agli standard dell'edilizia internazionale, assorbe "i cosiddetti valori universali e la retorica dei diritti umani".

Il timore è che "una civilità millenaria fisicamente occidentalizzata in due decenni, si scopra ricolonizzata anche nella mente e nello spirito". Liu Shilin, capo dell'Istituto di scienze urbane dell'università Jiao Tong si Shangai, ha promesso che entro poche settimane le autorità renderanno noi i criteri per definire chiaramente cosa sia la bandita "architettura strana". Nessuno osa dirlo, ma nella cilla dell'imitazione l'imbarazzo è generale. Xi Jinping ha appena visitato la sede della tivù di Stato, nota a Pechino come "il grande pantalone". Oggi a Shangai il G20 economico si riunisce nei grattacieli di Pudong, icona della "bizzaria delle archistar occidentali": uno è chiamato "cavatappi", uno "missile", l'ultimo "anguilla". Poco distante sta per essere inaugurato "Chinadisney", il più grande parco divertimenti del mondo, fotocopia dell'originale americano.

Nella capitale gli antichi hutong sono stati rasi al suolo per fare posto a strade e centri commerciali. Nelle province rurali  le millenarie siheyuan vengono demolite dagli speculatori che vendono palazzine a blocchi progettate in Svezia. Ai piedi della Grande Muraglia, paloscenico privo di neve delle Olimpiadi invernali 2022 già sorgono villaggi turistici clonati in Austria e Svizzera, con birrerie germaniche e pub inglesi. L'originalità dell'estetica cinese, dalle pagode ai templi buddisti, dalle sale da tè alle risaie terrazzate, si è autoestinta nel tempo, ma l'accusa di Xi Jinping oggi  non liquida un "passato imperiale o borghese", bensì il "presente straniero imposto dall'esterno". Per la prima volta la distruzione dei luoghi storici e dello stile nazionale non è promossa internamente dal potere che succede al potere, ma "dall'attrazione irrestitibile per il gusto, la tecnica e il business dell'Occidente che cancella l'Oriente".

Per Xi Jinping tutelare "l'identità cinese" è un'operazione di propaganda nazionalista e patriottica precondizione per salvare l'egemonia dell'autoritarismo comunista. Per chi ama la cultura, l'arte e il paesaggio è invece una questione di rinascita civile.

"Chiedo alle autorità - ha detto Wang Shu, vincitore del Protzker Prize per l'architettura - di salvare la Cina da una cementificazione e da una speculazione di Stato che portano all'autocancellazione del Paese e del suo Popolo". Per il creatore dello straordinario museo di storia di Ningbo "una globalizzazione architettonica al ribasso spoglia il Paese del suo carattere e l'intera umanità di un patrimomnio estetico irripetibile".  Il paradosso è che il Governo attacca i progettisti, minacciando di "rimuovere le strutture eccentriche entro cinque anni", mentre questi accusano "lo Stato corrotto che promuove per primo lo svuotamento della propria civiltà".

Due anni fa l'orgoglio della nomenclatura rossa era il New Century Global Centre di Chengdu, 50mila metri quadri di cemento, stile Manhattan, esaltato come "l'edificio più grande del mondo dove si può vivere dal giorno della nascita a quello della morte". Ora Pechino fa marcia indietro, promette di tutelare ciò che è stato risparmiato dalle ruspe, chiude le porte all'Occidente e ripropone il "modello Cina".

Per i cinesi sperare in città meno squallide e crudeli è una buona notizia. Quella cattiva è che il bando alle "sovversioni occidentali" non riguarda solo gli edifici, ma prima di tutto le idee: la prima è il sogno, in una strada qualsiasi, di sentirsi liberi.


DI SEGUITO L'INTERVISTA DI FRANCESCO ERBANI A VITTORIO GREGOTTI

 

La prima volta che Vittorio Gregotti andò in Cina era il 1963. Il potere era nelle mani di Mao Zedong e Zhou Enlai. Il marxismo era radicato nel mondo contadino e dominava una cultura antiurbana. Un bianchissimo stile sovietico improntava gli edifici pubblici. Quando ci è tornato, quarant'anni dopo, per progettare Pujiang, un insediamento da 80mila abitanti, la Cina era diventata la prateria per città da 15 milioni e più residenti, in cui scorazzavano architetti dalle bizzarre e magniloquenti fantasie. Ora si vorrebbe tornare indietro, a forme architettoniche più in linea con la tradizione e città medio-piccole. 

Architetto Gregotti, che ne pensa di questo richiamo al passato?

"Le megalopoli cinesi non sono come quelle africane o sudamericane, dove si accalcano baracche su baracche. Ma è evidente che queste città di spropositate dimensioni sono agglomerati di periferia. E sono fuori controllo. Manifestano sofferenze insormontabili: il trasporto, gli equilibri ambientali. Avendo la possibilità di pianificare, si tratta di un proposito ragionevole. Non so quanto sia attuabile in concreto".

Ma si può immaginare un recupero di modelli più cinesi?

"Qui il discorso diventa complesso. Le tradizioni cinesi sono tante. La storia dell'urbanistica e dell'architwettura cinese è vasta e piena di influenze. A che cosa ci si riferisce? Agli hutong, i recinti ce racchiudevano più abitazioni singole e che per secoli hanno costituito la struttura primaria dell'organismo urbano? La verità è che anche in Cina non si sopportano più le forme spinte della globalizzazione che ha prodotto un linguaggio universale." 

E' arrivata al capolinea la stagione dell'architettura spettacolo?

"Sì, con l'aggravante che in Cina si è realizzata un'architettura funzionale al più spinto capitalismo finanziario". 

Ma la Cina è un paese comunista. Gli architetti non si sono messi al servizio del regime?

"No. Buona parte di quegli architetti si sono impegnati in un ritratto edificante della globalizzazione. E hanno scelto forme mutevoli che rispecchiassero la duttilità del mercato e l'apologia del consumo".

In Cina hanno lavorato Rem Koolhaas e Zaha Hadid.

"In accordo con le ideologie neoliberiste, anche in Cina in molti hanno teorizzato l'insignificanza del disegno urbano, l'indifferenza di un oggetto architettonico rispetto alla città. E hanno capito che il capitalismo finanziario globale è tutt'altro che incompatibile con il sistema cinese".

Anche lei a progettato lì.

"Abbiamo disegnato un insediamento di circa 5mila appartamenti, una ventina di chilometri a sud di Shanghai. Ma ne è staat costruita una parte. Mancano gli edifici pubblici, sintomo di quanto conti in Cina la forza del privato".

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