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venerdì 3 febbraio 2017

La paesologia di Franco Arminio e le ferite inflitte al paesaggio

Recentemente ho letto su "Il nostro Paese" (rivista della STAN) una recensione di "Terracarne" l'ultimo libro di Franco Arminio, figura irrinunciabile e emblematica del recupero e della valorizzazione dei paesi dimenticati dell'Italia meridionale, soprattutto dopo il devastante terremoto dell'Irpinia. Incuriosita, ho acquistato il libro e l'ho divorato. Una scrittura densa e accorata che ti prende e lascia il segno. Un messaggio che non lascia indifferenti e che lascia il segno: Terracarne" è un libro la cui lettura non può che arricchire, sia per come è scritto, sia per quanto è scritto. Intanto ve ne propongo la recensione pubblicata su "Il nostro Paese". Buona lettura.


Ortica
Franco Arminio è un paesologo. Anzi, è IL paesologo per antonomasia visto che è a lui che si deve l'invenzione di una nuova disciplina, la paesologia. E cos'è la paesologia? Per Arminio, la paesologia nasce quando i paesi stanno finendo; la paesologia è uno sbandamento percettivo: dallo sguardo sul proprio corpo allo sguardo sul corpo del paese e del paesaggio; la paesologia ha capito che i luoghi sono importanti; la paesologia immagina che due sono le cose primarie: il proprio corpo e il mondo esterno, tutto il mondo esterno, dalle foglie alle macchine posteggiate; la paesologia non è una scienza, ma un vento che viene da sotto.
La paesologia è soprattutto frutto dell'Irpinia, una "terra di nuvole e di silenzio" battuta dai venti ancor prima che squarciata dal terremoto: la terra di Franco Arminio, paesologo, scrittore, poeta, regista e camminatore, "annotatore" di stati d'animo e di paesaggi in modo quasi compulsivo, in un alternarsi continuo tra diario, reportage e poesia; ipocondriaco, fustigatore, insofferente all'indifferenza di sguardi e corpi spenti davanti ai segni di un paesaggio martoriato di cui quotidianamente stila mesti referti di morte. Un'autopsia del paesaggio, al quale Franco Arminio presta la sua voce vibrante e accorata, sdegnata e militante, ma anche afflitta e - a volte - rassegnata.
E in questo processo di totale identificazione con le sofferenze inflitte al paesaggio, il paesologo si fa lui stesso terra, "una terra di mezzo" perché - nel suo vagabondare per i paesi, nel suo attraversarli - finisce che "terra e corpo quasi si confondono e il corpo si fa paesaggio e il paesaggio prende corpo". "La paesologia - dice - non è altro che il passare del mio corpo nel paesaggio e il passare del paesaggio nel mio corpo. È una disciplina fondata sulla terra e sulla carne "ma anche una forma di resistenza intima" in quanto è un modo di non arrendersi "all'universale sfiatamento degli esseri e delle cose". Poiché Arminio è uno che "dalla carne soffre per la sua terra e dalla terra soffre per la sua terra".
Non stupisce dunque che abbia scelto "Terracarne" quale titolo del suo ultimo libro. Libro che dà conto del suo peregrinare per i paesi del Sud Italia alla ricerca di una cultura dell'abitare ormai affossata da un dilagante "discount dell'architettura" spesso frutto -accusa- della cabina elettorale. n vagabondaggio tra le pieghe più remote e nascoste di un territorio duro, a volte ostile, la cui ostilità verso la matita che ha ridisegnato in peggio la geografia dei luoghi ha preservato quelli "attraversati dalla poesia e dalla morte", quelli che assomigliano a "un calzino rotto appeso a un ramo in un giorno di vento". E questo suo sguardo intenerito verso i paesi dismessi e poveri, verso un tetto squarciato, un pavimento sfondato, un muro diroccato o un cane randagio si traduce in un errare quasi ossessivo alla ricerca degli ultimi "nidi di silenzio e di luce". Un'ossessione, la sua, liberatoria poiché alimenta una scrittura umorale, altalenante, come gli slanci e i tonfi del suo sentire.
E in questo suo vagare tra paesi e luoghi non più "figli della storia" - ma di un passato avvertito come una seccatura più che come una ricchezza, di una bulimia edificatrice che ha spazzato via l'alleanza di un tempo tra gli uomini e le cose -avverte, cocente, un doppio fallimento: quello della modernità e della civiltà contadina. E sono d'altronde i paesi più marginali, più discosti, i paesi minori, quelli scampati alla ferita e alla lacerazione del troppo pieno, all'"ematoma urbanistico", a fargli dire che "il mondo ha più senso dov'è più vuoto", che il poco che c'è è meglio del troppo che c'è altrove (ove per altrove intende i paesi giganti e le loro palazzine, apoteosi della speculazione edilizia). "Case di città in paese, case di paese in campagna, case di campagna in città, case ovunque" dove "l'altezza delle case è stata raggiunta senza una parallela crescita del livello di civiltà". Come non pensare a Tita Carloni.
In questa costante dicotomia tra vuoto e pieno si dipana il pensiero del filosofo, del poeta e dell'attivista Franco Arminio il quale, imbattendosi in "un paese che mangia aria, che mangia luce, che mangia vento", scopre come il mondo abbia più senso dov'è più vuoto. Perché sono questi luoghi appartati e spesso impervi - lontani dal paesaggio sprecato, imbruttito, "presidiato dagli uomini e dalle cose, "svuotato a furia di riempirlo" - a celare, come un dono prezioso pronto per essere scartato, la possibilità di riannodare con una vita più sobria riscoprendo quell'anima smarrita, intorpidita e accecata dall'invasione delle merci. "Quello che conta - scrive nel suo blog "Comunità provvisorie" - è sentire che la modernità è una baracca da smontare. Una volta che la baracca è smontata, piano piano impareremo a guardare la terra ce c'è sotto per costruire in ogni luogo non altre baracche, ma case senza muri e senza tetto, costruire non la crescita, non lo sviluppo, costruire il senso di stare da qualche parte nel tempo che passa, un senso intimamente politico e poetico, un senso che fa viaggiare più lietamente verso la morte".
Forse per questo, la sua definizione di paesologia è quella di "scienza arresa": poiché privilegia il minimo, il minore, il residuo e lo sgraziato, i "paesi della bandiera bianca", quelli dove "il rullo del consumare e del produrre ha trovato qualche sasso che non si lascia sbriciolare". Dove ogni fessura, ogni crepa, ogni muro segnato dal tempo raccontano l'esistenza di un legame forte tra la terra e chi la abita: o, per usare le sue parole, parlano di gente che appartiene al luogo come un albero appartiene alla terra, narrano di "un'Italia rimasta viva per sbaglio per le amnesie della politica, per i mancamenti del progresso". E allora non meravigliamoci se per Arminio il suo andar per paesi è  - come annota - allenarsi a guardare il mondo che sta arrivando. Perché il futuro "appartiene a chi crede alla terra e alla sua sacralità". Poiché, per quanto paradossale possa apparire, "il futuro non è partorito dalle avanguardie ma dalle retrovie".

























Quartiere San Giovanni protetto: Bellinzona capitale morale della tutela del patrimonio


Una decisione storica. Per chi  si batte per la salvaguardia del patrimonio, la tutela cantonale del quartiere San Giovanni di Bellinzona apre una nuova pagina tutta da scrivere. La decisione - una prima ticinese- fa ben sperare a fronte della febbre che l'apertura di Alptransit non ha mancato di suscitare tra i promotori immobiliari. Dopo lo scempio perpetrato ai danni del territorio del Sottoceneri, Bellinzona non poteva permettersi di compromettere in modo irriversibile un tessuto urbano sviluppatosi armoniosamente nel tempo.

Ed è proprio il quartiere di San Giovanni, costruito 120 anni fa sotto la stazione che - complice lo sfruttamento degli indici rimasto sinora inferiore a quanto consentito dal PR- sarebbe stato esposto maggiormente al rischio di essere stravolto completamente dall'appetito delle ruspe.

È l'insieme armonico del quartiere e la qualità architettonica dei suoi edifici ad avere spinto il Dipartimento del territorio a procedere alla sua tutela ai sensi della LBC mediante la modifica dell'estensione del perimetro di rispetto attualmente in vigore. Un passo che non sarebbe stato possibile senza la volontà politica del comune. A fronte dei rischi corsi dai beni potenzialmente degni di essere protetti, nel 2013 aveva deciso di correre ai ripari adottando - in attesa del nuovo  PR - una zona di pianificazione provvisoria che di fatto aveva congelato gli edifici all'interno del suo perimetro.

La decisione ha consentito di procedere all'esame preliminare dei beni passibili di tutela: e quanto scaturito, oltre la tutela del quartiere San Giovanni e quella di 15 nuovi oggetti di importanza cantonale, è la protezione di ben 177 beni di importanza locale. Che sommati ai 66 che già beneficiano di protezione nell'ambito del Piano particolareggiato del centro storico, li portano alla ragguardevole cifra di 243.

Il 2013, quindi, un anno di svolta. Ripensando alla demolizione del Villino Salvioni -  sfortunatamente allora non figurava tra i beni tutelati dalla città- a quella dell'ex istituto Soave, alla distruzione - sventata- di villa Carmine, o ancora alla petizione lanciata dalla STAN a difesa delle ville storiche (senza contare gli  interventi in consiglio comunale a difesa del patrimonio storico-architettonico della città), non si può non ricordare quanto scriveva una lettera aperta indirizzata quello stesso anno al sindaco Mario Branda: "Non è troppo per proteggere insieme unitari valorizzando un'eredità che la Turrita ha saputo conservare praticamente intatta".

Ebbene, nel giro di neanche un quadriennio, Bellinzona ha saputo sfoderare la volontà politica necessaria a salvaguardare quelle pregevoli testimonianze architettoniche che altrove -leggasi Lugano- una politica miope e affarista ha invece dato in pasto alle ruspe.

Ortica